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domenica 8 novembre 2015

“Se vivi su un'isola fai amicizia con il mare” (Yitzhak Rabin)

Rabin non è stato una colomba. Un approccio ipocrita costruito in Occidente più che in Israele, – dove Rabin è considerato ancora oggi un traditore dalla maggioranza del suo popolo ­– rappresenta il leader ebraico come un eroe che ha pagato con la vita un sogno irrealizzabile. In realtà Rabin fu un politico abile e pragmatico che cercò con un notevole talento negoziale di ottenere da un lato un autocontrollo delle pulsioni indipendentiste palestinesi, dall’altro un vantaggio strategico di Israele nel conflitto mediorientale.
Rabin, nato a Gerusalemme nel 1922, fu il primo Capo di Governo del suo Paese nato in Israele. Tra i fondatori di Palmach  – acronimo delle “squadre d’assalto” – fu tra i maggiori animatori del movimento sionista durante il protettorato britannico. Rapidamente, dopo la costituzione dello Stato di Israele, si guadagnò la fama del “duro e competente”, condizione che gli permise di comandare la brigata Harel che conquistò Gerusalemme nella prima guerra arabo-israeliana del 1948. Capo di Stato Maggiore durante la Guerra dei Sei Giorni, fu l’ideatore con Moshe Dayan della strategia “preventiva” che consentì la distruzione al suolo della forza aerea siro-egiziana. Dal 1968 ambasciatore a Washington, fu eletto per la prima volta alla Knesset nel 1973 nelle fila del Partito Laburista. Più volte Ministro, nel 1977 fu costretto alle dimissioni a causa di un conto corrente negli USA intestato alla moglie, in violazione delle norme valutarie israeliane dell’epoca. Rientrò in politica dalla porta principale nel 1984 nel ruolo di Ministro della Difesa, posizione dalla quale gestì la repressione della prima Intifada (celebre la sua frase: “spaccare le ossa ai dimostranti”). Nel 1992 vinse la battaglia per la leadership del Partito laburista e diventò Primo Ministro, offrendo nel 1993 al suo storico avversario interno Shimon Peres la carica di Ministro degli Esteri.  Dalla fine del 1992 e per otto mesi si svolsero negoziati diretti segreti in una villa alla periferia di Oslo, che portarono il 13 Settembre del 1993 a Washington alla firma degli omonimi Accordi di Oslo tra lo stesso Rabin e il Rappresentante dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) Yasser Arafat, con l’approvazione del Presidente americano Bill Clinton. Quella firma permise a lui stesso e ad Arafat di ricevere nel 1994 il Premio Nobel per la Pace.
Oggi tutti gli storici sono concordi nell’affermare che gli Accordi di Oslo non furono certamente “bilanciati”. Infatti, Israele guadagnò il riconoscimento all’esistenza da parte dell’OLP in cambio del ruolo per quest’ultimo di rappresentante unico del popolo palestinese.  L’OLP però dovette garantire immediatamente la sicurezza di Israele e il controllo delle frange più irrequiete della protesta araba. Proprio per questo Rabin concesse la creazione dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) con autonomia in termini di Giustizia e ordine pubblico. In cambio Israele si ritirò dalla striscia di Gaza e da “alcuni” territori che includevano Gerico. E’ celebre nel testo del documento originale, scritto in inglese, la sottile differenza lessicale di ritiro “da territori palestinesi” in luogo di “dai territori palestinesi”, che avrebbe significato ovviamente “da tutti i territori palestinesi”; questa condizione permise ad Israele, nel caso di Gerico, di restituire solo la città e pochi terreni circostanti ma di tenere per sé i celebri fertili campi della regione. In conclusione, gli Accordi di Oslo furono una scaltra operazione diplomatica che obbligava l’OLP e la nascente ANP a garanzie immediate, mentre Israele spostava nel futuro la soluzione delle questioni più delicate come Gerusalemme, la restituzione dei territori palestinesi ai confini preesistenti alla Guerra dei Sei Giorni e soprattutto al ritorno dei profughi palestinesi. In un recente articolo pubblicato sul New York Times, Uri Savir, all’epoca dei fatti uno dei negoziatori israeliani, commentando il fallimento degli accordi di Oslo, pur imputandone la responsabilità all’insicurezza di Israele e alla frammentaria rappresentanza delle rivendicazioni palestinesi, ammette che Rabin non fu mai favorevole ai due Stati per due popoli.
Nonostante tutto ciò, il 4 novembre del 1995 un colono ebreo ultraortodosso, Ygal Amir, con un diploma di avvocato e figlio di una famiglia borghese, dunque non povero, non ignorante, né proveniente da quell’Est europeo che sarà una delle fonti principali di alimentazione delle colonie illegali in Cisgiordania dopo il 1989, uccise Rabin nel corso di un comizio nel centro di Tel Aviv. L’assassino, mai pentito, militava nella destra radicale cresciuta in Israele dopo gli Accordi di Oslo. Aveva confidato il progetto di uccidere il primo Ministro anche all'amico Avishai Raviv, anch’egli attivista radicale anti-Rabin ma soprattutto agente infiltrato dello Shin Bet, il servizio di spionaggio israeliano. Le indagini della commissione d’inchiesta Shamgar non dimostrarono un coinvolgimento diretto dei servizi segreti nell’assassinio di Rabin, cosa che tuttavia molti osservatori politici e giornalisti democratici sospettano ancora oggi.
In ogni caso, l’omicidio ottenne lo scopo di aumentare il senso di insicurezza innato nel popolo israeliano. Le elezioni nel 1996 premiarono la destra radicale, che una volta al governo liquidò la politica di “apertura” del partito laburista attraverso l’utilizzo massiccio degli insediamenti illegali dei coloni in Cisgiordania. Anche il vertice di Camp David del 2000 tra il Primo Ministro israeliano Barak (nell'ultima parentesi di governo laburista) e il Presidente dell’ANP Arafat, fortemente voluto dal Presidente Usa Bill Clinton, fu un fallimento. Il testo finale, una pura enunciazione di buoni propositi, era il frutto delle paure di Barak che alcuni ritengono temesse per la sua stessa incolumità. Sebbene il testo contenesse un riferimento preciso alle risoluzioni Onu 242 (dopo la guerra dei Sei giorni 1968) e Onu 338 (dopo la guerra del Kippur 1973), che prevedevano entrambe la restituzione dei territori occupati da Israele e l’avvio di un processo di creazione di due Stati, il documento siglato rimase l’ultima occasione per una pace che affrontasse il cuore delle questioni politiche sul tappeto. Pochi mesi dopo scoppiava la seconda Intifada.
Ancora oggi gli estremisti di entrambi gli schieramenti definiscono il conflitto arabo-israeliano come una guerra tra religioni. Niente di più falso. I palestinesi appartengono a differenti confessioni religiose. Ci sono palestinesi cristiani di confessione ortodossa, cattolica, anglicana e protestante. Nel 1922 i palestinesi cristiani erano il 10%, che divenne il 7,6% già nel 1946 e un gran numero di essi fu espulso dopo la guerra del 1948 dalle aree sotto il controllo ebraico. Nel mondo esistono circa un milione di cristiani palestinesi.
Purtroppo oggi la stagione della speranza appare lontanissima. Il Premier israeliano Netanyahu è riuscito a trasformare in realtà il sogno degli estremisti israeliani di disperdere e annientare il popolo palestinese attraverso l’occupazione illegale di sempre maggiori porzioni di terra palestinese, sostenendo perfino coloro che rivendicano l’annessione ad Israele dei luoghi sacri alla religione islamica di Gerusalemme. Dunque il conflitto è puramente politico ed è questa la ragione per cui nella condizione attuale la maggiore responsabilità nella soluzione della “questione mediorientale” è, una volta di più, nelle mani del Governo USA, l’unico a poter davvero influenzare Israele.
Dal canto suo l’ANP, attraverso fonti vicine al governo, ribadisce che la Terza Intifada, la così detta “Intifada dei coltelli”, non è un’azione organizzata dall’estremismo jihadista ma rappresenta la risposta della disperazione dei giovani cresciuti nella miseria e nell’emarginazione dei campi profughi.

Fabio Bartoli - Novembre 2015 

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