Rabin
non è stato una colomba. Un approccio ipocrita costruito in Occidente più che
in Israele, – dove Rabin è considerato ancora oggi un traditore dalla
maggioranza del suo popolo – rappresenta il leader ebraico come un eroe che ha
pagato con la vita un sogno irrealizzabile. In realtà Rabin fu un politico
abile e pragmatico che cercò con un notevole talento negoziale di ottenere da
un lato un autocontrollo delle pulsioni indipendentiste palestinesi, dall’altro
un vantaggio strategico di Israele nel conflitto mediorientale.
Rabin,
nato a Gerusalemme nel 1922, fu il primo Capo di Governo del suo Paese nato in
Israele. Tra i fondatori di Palmach –
acronimo delle “squadre d’assalto” – fu tra i maggiori animatori del movimento
sionista durante il protettorato britannico. Rapidamente, dopo la costituzione
dello Stato di Israele, si guadagnò la fama del “duro e competente”, condizione
che gli permise di comandare la brigata Harel che conquistò Gerusalemme nella
prima guerra arabo-israeliana del 1948. Capo di Stato Maggiore durante la
Guerra dei Sei Giorni, fu l’ideatore con Moshe Dayan della strategia
“preventiva” che consentì la distruzione al suolo della forza aerea
siro-egiziana. Dal 1968 ambasciatore a Washington, fu eletto per la prima volta
alla Knesset nel 1973 nelle fila del Partito Laburista. Più volte Ministro, nel
1977 fu costretto alle dimissioni a causa di un conto corrente negli USA intestato
alla moglie, in violazione delle norme valutarie israeliane dell’epoca. Rientrò
in politica dalla porta principale nel 1984 nel ruolo di Ministro della Difesa,
posizione dalla quale gestì la repressione della prima Intifada (celebre la sua
frase: “spaccare le ossa ai dimostranti”). Nel 1992 vinse la battaglia per la leadership
del Partito laburista e diventò Primo Ministro, offrendo nel 1993 al suo
storico avversario interno Shimon Peres la carica di Ministro degli
Esteri. Dalla fine del 1992 e per otto
mesi si svolsero negoziati diretti segreti in una villa alla periferia di Oslo,
che portarono il 13 Settembre del 1993 a Washington alla firma degli omonimi Accordi
di Oslo tra lo stesso Rabin e il Rappresentante dell’OLP (Organizzazione per la
Liberazione della Palestina) Yasser Arafat, con l’approvazione del Presidente
americano Bill Clinton. Quella firma permise a lui stesso e ad Arafat di
ricevere nel 1994 il Premio Nobel per la Pace.
Oggi
tutti gli storici sono concordi nell’affermare che gli Accordi di Oslo non
furono certamente “bilanciati”. Infatti, Israele guadagnò il riconoscimento
all’esistenza da parte dell’OLP in cambio del ruolo per quest’ultimo di
rappresentante unico del popolo palestinese.
L’OLP però dovette garantire immediatamente la sicurezza di Israele e il
controllo delle frange più irrequiete della protesta araba. Proprio per questo Rabin
concesse la creazione dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) con autonomia
in termini di Giustizia e ordine pubblico. In cambio Israele si ritirò dalla
striscia di Gaza e da “alcuni” territori che includevano Gerico. E’ celebre nel
testo del documento originale, scritto in inglese, la sottile differenza
lessicale di ritiro “da territori palestinesi” in luogo di “dai territori
palestinesi”, che avrebbe significato ovviamente “da tutti i territori
palestinesi”; questa condizione permise ad Israele, nel caso di Gerico, di
restituire solo la città e pochi terreni circostanti ma di tenere per sé i
celebri fertili campi della regione. In conclusione, gli Accordi di Oslo furono
una scaltra operazione diplomatica che obbligava l’OLP e la nascente ANP a
garanzie immediate, mentre Israele spostava nel futuro la soluzione delle
questioni più delicate come Gerusalemme, la restituzione dei territori
palestinesi ai confini preesistenti alla Guerra dei Sei Giorni e soprattutto al
ritorno dei profughi palestinesi. In un recente articolo pubblicato sul New
York Times, Uri Savir, all’epoca dei fatti uno dei negoziatori israeliani,
commentando il fallimento degli accordi di Oslo, pur imputandone la responsabilità
all’insicurezza di Israele e alla frammentaria rappresentanza delle
rivendicazioni palestinesi, ammette che Rabin non fu mai favorevole ai due
Stati per due popoli.
Nonostante
tutto ciò, il 4 novembre del 1995 un colono ebreo ultraortodosso, Ygal Amir,
con un diploma di avvocato e figlio di una famiglia borghese, dunque non
povero, non ignorante, né proveniente da quell’Est europeo che sarà una delle
fonti principali di alimentazione delle colonie illegali in Cisgiordania dopo
il 1989, uccise Rabin nel corso di un comizio nel centro di Tel Aviv.
L’assassino, mai pentito, militava nella destra radicale cresciuta in Israele
dopo gli Accordi di Oslo. Aveva confidato il progetto di uccidere il primo
Ministro anche all'amico Avishai Raviv, anch’egli attivista radicale anti-Rabin
ma soprattutto agente infiltrato dello Shin Bet, il servizio di spionaggio
israeliano. Le indagini della commissione d’inchiesta Shamgar non dimostrarono
un coinvolgimento diretto dei servizi segreti nell’assassinio di Rabin, cosa che
tuttavia molti osservatori politici e giornalisti democratici sospettano ancora
oggi.
In
ogni caso, l’omicidio ottenne lo scopo di aumentare il senso di insicurezza innato
nel popolo israeliano. Le elezioni nel 1996 premiarono la destra radicale, che
una volta al governo liquidò la politica di “apertura” del partito laburista
attraverso l’utilizzo massiccio degli insediamenti illegali dei coloni in
Cisgiordania. Anche il vertice di Camp David del 2000 tra il Primo Ministro
israeliano Barak (nell'ultima parentesi di governo laburista) e il Presidente
dell’ANP Arafat, fortemente voluto dal Presidente Usa Bill Clinton, fu un
fallimento. Il testo finale, una pura enunciazione di buoni propositi, era il
frutto delle paure di Barak che alcuni ritengono temesse per la sua stessa
incolumità. Sebbene il testo contenesse un riferimento preciso alle risoluzioni
Onu 242 (dopo la guerra dei Sei giorni 1968) e Onu 338 (dopo la guerra del
Kippur 1973), che prevedevano entrambe la restituzione dei territori occupati
da Israele e l’avvio di un processo di creazione di due Stati, il documento
siglato rimase l’ultima occasione per una pace che affrontasse il cuore delle
questioni politiche sul tappeto. Pochi mesi dopo scoppiava la seconda Intifada.
Ancora
oggi gli estremisti di entrambi gli schieramenti definiscono il conflitto
arabo-israeliano come una guerra tra religioni. Niente di più falso. I
palestinesi appartengono a differenti confessioni religiose. Ci sono
palestinesi cristiani di confessione ortodossa, cattolica, anglicana e
protestante. Nel 1922 i palestinesi cristiani erano il 10%, che divenne il 7,6%
già nel 1946 e un gran numero di essi fu espulso dopo la guerra del 1948 dalle
aree sotto il controllo ebraico. Nel mondo esistono circa un milione di
cristiani palestinesi.
Purtroppo
oggi la stagione della speranza appare lontanissima. Il Premier israeliano
Netanyahu è riuscito a trasformare in realtà il sogno degli estremisti israeliani
di disperdere e annientare il popolo palestinese attraverso l’occupazione illegale
di sempre maggiori porzioni di terra palestinese, sostenendo perfino coloro che
rivendicano l’annessione ad Israele dei luoghi sacri alla religione islamica di
Gerusalemme. Dunque il conflitto è puramente politico ed è questa la ragione
per cui nella condizione attuale la maggiore responsabilità nella soluzione
della “questione mediorientale” è, una volta di più, nelle mani del Governo USA,
l’unico a poter davvero influenzare Israele.
Dal
canto suo l’ANP, attraverso fonti vicine al governo, ribadisce che la Terza
Intifada, la così detta “Intifada dei coltelli”, non è un’azione organizzata
dall’estremismo jihadista ma rappresenta la risposta della disperazione dei
giovani cresciuti nella miseria e nell’emarginazione dei campi profughi.
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